La mémoire du temps dans l’espace
«Villa di delizie nel corso di Mezzo Monreale dov'è nobil casena ed un giardino foltissimo, e di ogni sorta di alberi ombreggiato.» Marchese di Villabianca. 1788
La mémoire du temps dans l’espace a cura di Agata Polizzi
L’archivio come strumento intimo di catalogazione, il viaggio come esperienza del mondo, la memoria come traccia per rappresentare. Persone conosciute, luoghi, sensazioni o percezioni, sono pretesto per uno scavo nell’archeologia di un vissuto che ci appartiene, immagini come elemento minimo di una narrazione.
Cécile Hummel (Gottlieben 1962) procede seguendo una metodologia precisa, il suo è un processo che accumula e rielabora visioni, disegno e fotografia sono le forme della sua rappresentazione. La sottotraccia è invece una formazione umanistica che si nutre della matrice classica delle cose, uno sguardo che mai prescinde dalla consapevolezza che tutto ha una «storia» da circoscrivere all’interno di un’esperienza.
La mémoire du temps dans l`espace racconta in una sorta di dossier l’identità di un Mediterraneo contemporaneo che ha nella sua carne la memoria del passato e nel presente le contradizioni e le complessità di un sistema vivo. Hummel rilegge con il suo lavoro tracce che poi non sono altro che la quotidianità: oggetti di riuso, architetture, animali, scorci, giardini, elementi significativi di come l’uomo percepisce e subisce lo spazio e il tempo.
La selezione di opere per il progetto La mémoire du temps dans l`espace alla Galleria Francesco Pantaleone si compone di opere fotografiche, disegni e installazioni e nasce da una serie di viaggi tra Italia, Egitto e Marocco, una teoria di sguardi sulle città e di vite vissute nella loro apparente normalità. La Sicilia soprattutto è riletta attraverso piccoli dettagli che ingigantiscono, ripetono e dispongono immagini come tasselli di un puzzle. Grandi o piccole definizioni di universi in cui ogni cosa ha un preciso senso. Archivi appunto, identità recuperate da un passato sbiadito che sopravvive nel presente, s’intreccia con scene di vita reale, diventa alterità.
Il lavoro di Cécile Hummel è certamente metafisico, alcuni sguardi sfuggono ad una precisa classificazione, sono rappresentazioni del mondo: alcuni oggetti sono reali ma perdono la propria connotazione e finiscono per diventare astratti. Le opere fotografiche raccolgono ornamenti, reperti, paesaggi che Hummel ricompone come fossero documenti da mostrare, studiare, tenere sotto agli occhi. I disegni contribuiscono alla riflessione, sono pause per pensare, descrivono forme precise, replicate, e restano sospesi tra reale e tridimensionale. Sono un commento ulteriore, appunti quasi, di certo sono approfondimenti.
Questo sforzo sistematico e non necessariamente ordinato, la documentazione sentimentale di una bellezza percepita nel suo segno distintivo, il romantico tentativo di classificare una cultura che affonda il suo intimo significato nella comune appartenenza, fanno del lavoro di Hummel una versione collettiva di quello che è invece il suo processo cognitivo, la sua capacità di legarsi ai luoghi e alla loro storia, di percepire quella parte di verità che rende una e una sola l’esperienza.